Anonimo Pittore Leonardesco

(XVI Secolo)

San Gerolamo, c. 1520

olio su tavola, trasportato su tela, 143 x 100 cm (56.30 x 39.37 inches)

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Anonimo Pittore Leonardesco

(XVI Secolo)

San Gerolamo, c. 1520

olio su tavola, trasportato su tela, 143 x 100 cm (56.30 x 39.37 inches)

Rif: 856

Provenienza: Collezione Fassati, Milano

Bibliografia:

W. Suida, Leonardo da Vinci und seine Schule in Mailand, in “Monatshefte für Kunstwissenschaft”, XIII, 1920, p. 46

G. Agosti, J. Stoppa, Tenere botta, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2018 cit., p. XVII

A. Morandotti, An anonymous Leonardesque painter and the Fassati St. Jerome , Milan, 2024

Descrizione:

Vicende di provenienza

Il dipinto è registrato come opera di anonimo lombardo del XVI secolo nella Fototeca Zeri, dove, grazie agli appunti del grande conoscitore, è attestata la presenza dell’opera nella collezione del “marchese Fassati, Milano” [1]. È un dato che si può confermare, come mi suggerisce Matteo Salamon, e che apre molti interrogativi sulla vicenda di provenienza precedente a quell’indicazione zeriana. La visione diretta dell’opera, eseguita originariamente su tavola ma trasportata su tela in epoca imprecisata [2], non offre molte altre informazioni sulla sua storia anche perché il supporto originale, dove sul retro potevano esserci eventuali indizi di provenienza, è irrimediabilmente perduto. Secondo quanto indicato nel catalogo on line della Fototeca Zeri, la foto, databile tra il 1950 e il 1980,  è stata scattata dal Laboratorio dell’allora Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città Metropolitana di Milano [3], ed è solo sulla base di quel documento iconografico che Zeri conosceva il dipinto. La collezione Fassati [4] si è formata per aggregazioni successive di eredità provenienti da famiglie radicate tra Brescia e Milano e forse per acquisti diretti di cui però è difficile precisare e ricostruire l’entità. La raccolta viene intercettata negli studi verso la fine dell’Ottocento, in virtù soprattutto della presenza di un celebre capolavoro ritrattistico di Moretto, il Ritratto d’uomo con la clessidra, già a Brescia presso la collezione Maffei, poi passato in casa Fenaroli (e in seguito per eredità ai Fassati), dal 1928 al Metropolitan Museum of Art di New York [5]. Sempre ai Fassati apparteneva un dipinto attribuito a Bernardino Campi registrato sotto il nome del maestro cremonese negli studi della fine del XIX secolo, poi scomparso dai radar della ricerca storico-artistica [6], mentre, pur tra le documentate dispersioni [7], ancora nel 1955 un delizioso abbozzo di Giulio Cesare Procaccini (con una Deposizione di Cristo) veniva esposto come di proprietà Fassati alla mostra che Giovanni Testori organizzò nella Torino di Vittorio Viale. Il piccolo Procaccini, grazie alle indicazioni di Paolo Boifava, è stato da poco identificato tra le opere appartenute alla raccolta Maffei di Brescia, quadreria molto celebre nel Settecento [8]. A questa manciata d’informazioni si possono aggiungere due ulteriori menzioni, una sempre grazie alla Fototeca Zeri, dove viene registrato come opera già di casa Fassati l’intenso Ritratto di giovane uomo che Zeri ha restituito al raro pittore attivo nella Ferrara di Ercole I d’Este, Lazzaro Grimaldi [9]; sempre in area padana, ma in un contesto di infatuazione velatamente leonardesca, va ricondotto ancora un dipinto con questa stessa provenienza venduto recentemente presso il Ponte casa d’aste di 

Milano [10]. 

 

Il soggetto 

San Gerolamo, incastonato in una spettacolare cornice paesaggistica, è ritratto, quasi al naturale,  inginocchiato in preghiera, col corpo nudo protetto solo da un perizoma vegetale. La veduta scorciata della figura, di tre quarti, esalta il plasticismo dell’anatomia percorsa da preziose luci alabastrine e da ombre pronunciate. Il rilievo descrittivo della muscolatura e del sistema venoso trova un’attenzione equivalente nei solchi che delineano le rughe del collo e della fronte nonché nelle corte e regolari ciocche che definiscono barba e capelli incanutiti. Sono questi dettagli, eseguiti con rapidi tocchi, come quelli che definiscono le sopracciglia, quasi ispide piume, a ricordarci l’età matura del santo, a contrasto con la sua atletica e giovanile corporatura, almeno nel torso se non nelle gambe, dove si colgono caratteristiche da vecchio macilento. Il santo fissa il suo sguardo verso il crocefisso ben piantato a terra, quasi al centro del dipinto, tra i libri di preghiera e il teschio, unici compagni della sua meditazione insieme allo stilizzato leone ‘araldico’ restituito senza particolare estro alle sue spalle. Stupisce poi la qualità del modellato del Cristo in croce, studiato attentamente in ogni dettaglio, con una sensibilità plastica che non sarà azzardato definire  michelangiolesca. 

Il soggetto è interpretato secondo la consuetudine iconografica cara alla tradizione rinascimentale, alla quale riconduce ancora il sasso insanguinato stretto nella mano in primo piano pronto di nuovo ad essere indirizzato verso il petto dell’eremita, già percosso come evidenziano le goccioline di sangue visibili nella penombra, all’altezza del cuore. Quello che sorprende però, entro questa sorvegliata e convenzionale regia, è l’ossessione descrittiva delle specie vegetali, qui identificate grazie all’aiuto generoso di uno specialista come Enrico Banfi , studiate dal vero e inserite tra le rocce e le limpide acque di un torrentello che scorre tra i ciottoli levigati di questa radura protetta; mimetizzate nella natura vi si scorgono rane dai vividi occhietti gialli, conchiglie spiaggiate, lumache che arrancano tra le asperità del terreno, apparizioni di un paesaggio fiabesco e incantato raccolto entro l’architettura arborea che riveste la grotta aperta verso un paesaggio lontano caratterizzato da un mulino e, più verso l’orizzonte, da una città fortificata che sovrasta un corso d’acqua e si innalza ai piedi di rilievi alpini descritti nei loro profili, ben visibili tra le luci diafane giocate su diversi toni di azzurro. 

 

Informazioni storico-critiche

Il carattere lombardo del dipinto, avvistato da Zeri nella nota autografa al verso della fotografia in suo possesso, è evidente, come risulta ancora da alcune rare menzioni bibliografiche che lo riguardano, più o meno recenti. Uno dei primi grandi esploratori della cerchia leonardesca di area lombarda, Wilhelm Suida, lo ha rapidamente catalogato come un’opera dello Pseudo-Boltraffio in un articolo del 1920 [11], menzione che non ha però trovato conferme o smentite nel suo impegnato volume del 1929 dove dell’opera non c’è traccia anche se sull’anonima personalità tra Boltraffio e Marco d’Oggiono da lui battezzata Pseudo-Boltraffio si continuava a ragionare. Quell’assegnazione trovava un generico confronto, specie per la cornice paesaggistica, con una tavola di attribuzione problematica della Pinacoteca di Brera (reg. cron. 320), rimpallata tra lo Pseudo-Boltraffio di Suida e Marco d’Oggiono ma anche talvolta scivolata nel catalogo del misterioso Salaì [12], e con un altro San Gerolamo, di misura più ridotta, allora nella collezione “des verstorbenen Conte Cesare Del Mayno in Mailand” [13].  Un’opera quest’ultima che, pur appartenendo a una celebre collezione molto citata tra Ottocento e Novecento (per opere di Boltraffio e di Giovanni Agostino da Lodi), non so riconoscere. Più di recente, sulla base della riproduzione della Fototeca Zeri, per il San Gerolamo Fassati è stata proposta pur dubitativamente un’assegnazione al riscoperto Francesco De Tatti [14], un pittore formatosi sull’esempio di Bramantino e Zenale, lontano dall’estro leonardesco dell’autore del dipinto in esame, maturato in una chiave ormai manierista.   È la stessa ragione che impedisce di accogliere l’idea che sia qui riconoscibile, come è stato suggerito ai proprietari, un’opera del raro pittore Nicola Moietta, le cui esperienze sono molto legate al magistero di Bernardo Zenale, e di cui si conosce un’opera firmata e datata 1523 con questo stesso soggetto [15], ma un poco più arcaizzante. 

Il plasticismo pronunciato della scultorea figura, lo smalto cromatico della tavola, che si colgono bene nonostante il trauma dell’antico trasporto, restituiscono le esperienze artistiche dell’estrema stagione leonardesca, quelle legate al secondo soggiorno milanese di Leonardo (1506-1513) e all’arrivo a Milano dei disegni, cartoni e dipinti del maestro ereditati alla sua morte nel 1519 da Francesco Melzi e Giacomo Caprotti, il Salaì.  A monte di questa invenzione, tra le numerose sperimentazioni di questo soggetto in area leonardesca conosciute o note dai documenti [16], va senz’altro annoverato il dipinto di Cesare da Sesto conservato al Museo Nazionale di Stoccolma, un San Gerolamo più agile e scattante, di cui si conosce la fortuna antica [17], impostato con uno scorcio e un’invenzione compositiva molto simili. L’esemplare Fassati è un’iperbole di quella realizzazione, per la forzatura disegnativa dei contorni dell’anatomia nonché per la magnifica invenzione della mano aperta che emerge dall’ombra; una rilettura manierista che sembra quasi prevedere l’estro di un romanista nordico come Maerten van Heemskerck, attento qui eventualmente a confrontarsi non tanto, come è solito fare, con Raffaello e Michelangelo ma con gli artisti di area leonardesca. La cultura nordica  è stata spesso evocata anche per le esuberanti cornici botaniche e paesaggistiche di molti quadri milanesi di area leonardesca confrontabili per quei dettagli con il San Gerolamo Fassati, specie pensando al Battesimo di Cristo della collezione Gallarati Scotti [18], ma è una constatazione un poco da rivedere. Il ‘bosco’ incantato in cui è ospitato San Gerolamo nel dipinto Fassati, niente a che vedere con i paesaggi aspri e inospitali in cui si trovano a pregare molti suoi ‘fratelli’ di area veneta e padana dipinti a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, traduce una caratteristica di simili ambienti eseguiti dai leonardeschi milanesi di seconda generazione. L’ossessione botanica percepibile in opere di questa cultura dipinte a Milano tra secondo e quarto decennio del Cinquecento è descritta molto bene da Francesco Frangi di fronte a un’opera conservata a Brera, a lungo attribuita al misterioso Salaì e utile da richiamare qui a confronto per la cornice paesaggistica. Nel dipinto di Brera, considerato dallo studioso come una delle opere cardini del risarcito Maestro di Ercole e Gerolamo Visconti (attivo a Milano nel secondo quarto del XVI secolo), «gli inserti vegetali che animano l’intero ambiente nel quale si svolge la scena […] se è vero infatti che […] trovano la loro fonte primaria nella Vergine delle rocce leonardesca, è altrettanto chiaro che nel loro carattere elencativo, percepibile soprattutto nella minuta descrizione delle diverse tipologie floreali che prendon vita ai piedi dei protagonisti, essi partecipano piuttosto di quella propensione per un naturalismo “microcosmico”, quasi da repertorio botanico, che si diffonde come una vera e propria moda nell’ambito del leonardismo maturo (da Marco d’Oggiono a Francesco Melzi, passando ovviamente per il Battesimo di Cristo Gallarati Scotti) e che rappresenta la forma semplificata e in fondo disimpegnata nella quale i seguaci dell’artista toscano declinarono la febbrile passione del loro maestro per lo scrutinio del mondo naturale» [19]. In questo puntuale riscontro non si coglie alcuna indicazione in merito all’origine di questa nuova sensibilità, ma mi pare che quel gusto per l’osservazione diretta del dato naturale nasca per una maturazione interna [20], sulla base delle suggestioni di Leonardo (documentate nei dipinti, così come nelle sue numerose sperimentazioni grafiche dedicate al mondo naturale) ma anche per una evidente sensibilità di scuola. L’eredità della Lombardia di Giovannino de’ Grassi e Michelino da Besozzo si salda con le esplorazioni del mondo naturale di area leonardesca, condivise da un gruppo di artisti che ritraggono spesso le stesse specie attingendo però allo studio dal vero e non esercitandosi su modelli di bottega. Può darsi che in quel momento nascessero veri e propri specialisti di questo genere, ed il caso del dipinto Gallarati Scotti, chiaramente a due mani che sia o meno Bernazzano l’autore dell’incredibile paesaggio di contorno [21], è emblematico di quanto stava avvenendo intorno al 1520 circa. Devo dire che ho vagheggiato brevemente l’idea che ci trovassimo qui davanti al maestro a cui spetta il paesaggio Gallarati Scotti, attivo però in questo caso anche nell’esecuzione della figura, ma i confronti puntuali fra le due prove, testimonianze certo di una sensibilità comune, permettono di considerare il Paradiso in terra in cui si trova a meditare Gerolamo una declinazione della cornice a paese molto diminuita dal punto di vista qualitativo rispetto all’Eden del Battesimo. Le trasparenze, le diverse tonalità che definiscono piante, ciottoli, animali nel dipinto Gallarati Scotti assumono nel san Gerolamo Fassati una soluzione più schematica e monocorde. La rana che nuota agilmente tra le acque cristalline nel Battesimo ha un’evidenza morfologica che rende quasi ingenue le due ‘sorelle’ presenti nel quadro Fassati, timidamente descritte in azioni poco spettacolari. Una natura meno sontuosa, ma profondamente lombarda, se si pensa ancora alla veduta in lontananza, che ricorda soluzioni analoghe adottate da Cesare Magni nei suoi dipinti. Anche in questo caso, il soffuso fondale a paese del Battesimo Gallarati Scotti rimane un risultato irraggiungibile, per qualità, per l’ autore del San Gerolamo. Non si riesce quindi ad ancorare a un nome certo questo dipinto, forse un po’ naive ma spettacolare, anche se è innegabile che, per storia collezionistica e parentele stilistiche, il San Gerolamo Fassati si iscrive come un interessante caso da risolvere tra i molti ancora aperti per chi studia il mondo dei leonardeschi in Lombardia. 

 



Grazie agli amici e ai colleghi con i quali ho discusso il problema attributivo: Stefania Buganza, Federico Cavalieri, Francesco Frangi, Mauro Natale. Per informazioni e notizie sono grato a Lorenzo Colombo e Piergiorgio Picozzi 

[1] Fototeca Zeri, Bologna, scheda n. 33394 (http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda/opera/35696/Anonimo%20lombardo%20sec.%20XVI%2C%20San%20Girolamo%20in%20preghiera%20nella%20grotta)

[2] Il dipinto (olio su tavola trasportata su tela) misura cm 142 x 98,8 e si presenta in uno stato di conservazione discreto. Le numerose cadute della pellicola pittorica, della cui entità è testimone la relazione di restauro di Carlotta Beccaria nell’archivio della Galleria Salamon, sono state risarcite ad imitativo.  

[3]http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda/fotografia/74315/Archivio%20Fotografico%20della%20Soprintendenza%20Archeologia%2C%20Belle%20Arti%20e%20Paesaggio%20per%20la%20citt%C3%A0%20metropolitana%20di%20Milano%20-%20Anonimo%20lombardo%20-%20sec.%20XVI%20-%20San%20Girolamo%20in%20preghiera%20nella%20grotta%20-%20particolare%2C%20parte%20inferiore

[5] Sul dipinto, la sua storia e l’importanza nella parabola artistica di Moretto, si veda la scheda-saggio di Alessandro Ballarin per il catalogo della mostra di Parigi Le siècle de Titien (1993), ora ripubblicata in A. Ballarin, La Salomé del Romanino ed altri studi sulla pittura bresciana del Cinquecento, a cura di B. M. Savy, 2 voll, Cittadella 2006, I, pp. 276-285. 

[6] “A Milano, presso il marchese Fassati, è un altro quadro di Bernardino Campi, dov’è una lunga figura allegorica femminile che sta stesa appoggiandosi ad un vaso , mentre due putti ignudi giocano con un vaso” (E. Schweitzer, La scuola pittorica cremonese, in “L’Arte”, III, 1900, p. 67).

[7] Dovrebbe essere appartenuto ai Fassati (lo cita di sfuggita come già appartenuto alla raccolta, S. Zamboni, s.v. Campi, Giulio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, XVII, 1974, p. ) un bellissimo ritratto relativamente giovanile di Giulio Campi, censito sempre da Schweitzer 1900 cit., p. 60 (“”Giovanile è anche il bel ritratto della Donna con fiore, del marchese Fassati di Milano, che potrebbe quasi essere opera del Pordenone”), noto in una foto storica dello studio Luigi Dubray di Milano conservata nella Fototeca Zeri di Bologna: scheda n. 31705 http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda/opera/34522/Campi%20Giulio%2C%20Ritratto%20di%20giovane%20donna%20con%20vaso%20di%20fiori

[8] H. Brigstocke-O. D’Albo, Giulio Cesare Procaccini. Life and Work. With a Catalogue of His Paintings, Torino 2020, p. 305, n. 20.  

[9] Fototeca Zeri, Bologna, scheda n. 40324 http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda/opera/43103/Grimaldi%20Lazzaro%2C%20Ritratto%20di%20giovane%20uomo

[10] Il notevole dipinto, un San Giovanni Battista nel paesaggio venduto come anonima opera di ambito leonardesco e senza indicazione specifica della provenienza, è compreso nel catalogo di vendita di Arredi e Dipinti Antichi, Il Ponte Casa d’Aste, 12-14 aprile 2022, lotto 115. 

[11] W. Suida, Leonardo da Vinci und seine Schule in Mailand, in “Monatshefte für Kunstwissenschaft”, XIII, 1920, p. 46.

[12] J. Shell, Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì, in I Leonardeschi. L’eredità di Leonardo in Lombardia, Milano 1998, pp. 404-405, fig. 289. Per le intricate vicende critiche di quel dipinto, A. Allegri, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2. Dal territorio al museo, catalogo della mostra (Rancate, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, 28 ottobre 2018 – 17 febbraio 2019) a cura di G. Agosti e J. Stoppa, Bellinzona 2018, pp. 114-119. 

[13] Suida 1920 cit.

[14] G. Agosti, J. Stoppa, Tenere botta, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2018 cit., p. XVII. 

[15] La Collezione Gallino. Dipinti antichi e del XIX secolo, catalogo della vendita all’asta, Wannenes, Genova, 1 giugno 2016, lotto n. 573. 

[16] Qualche spunto per la fortuna di queste invenzioni in P. Marani, in Disegni e dipinti leonardeschi dalle collezioni milanesi, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale 27 novembre 1987 – 31 gennaio 1988) a cura di G. Bora, L. Cogliati Arano, M.T. Fiorio, P.C. Marani 1987, pp. 66-67, n. 15; Idem, Il problema della “bottega” di Leonardo: la “praticha” e la trasmissione delle idee di Leonardo sull’arte e la pittura, in I leonardeschi 1998 cit., p. 17; sfuggono ai riscontri gli accenni che Leonardo fa a “cierti San Girolami” da portare forse con sé in Lombardia, chissà se legati alla realizzazione del suo San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana, o la memoria di un “Quadro cum uno Santo Hieronimo grando” (di Leonardo stesso ?) registrato nell’inventario post mortem del Salaì (Shell 1998, p. 402). 

[17] M. Carminati, Cesare da Sesto (1477-1523), Milano-Roma 1994, pp. 180-182, n. 11; per i disegni connessi a questa invenzione di Cesare da Sesto, ivi, p. 303, D85, 308, D92.. 

[18] Ivi, pp. 170-174, n. 9.

[19] F. Frangi, La “resistenza” leonardesca a Milano: il Maestro di Ercole e Gerolamo Visconti, in Brera mai vista. All’ombra di Leonardo. La pala di Sant’Andrea alla Pusterla e il suo maestro, catalogo della mostra (Milano, Pinacoteca di Brera, settembre-novembre 2003), p. 24.

[20] Così si evince, pur indirettamente, dal citato intervento di Frangi.

[21] G. Romano, Documenti e monumenti: il caso del Bernazzano (2002), ora in Idem, Rinascimento in Lombardia. Foppa, Zenale, Leonardo, Bramantino, Milano 2011, pp. 185-196. La mirabile ricostruzione delle prime opere certe di questo pittore, con possibili ricadute nelle sue documentate relazioni con Cesare da Sesto, non inficia la possibilità che a Bernazzano spetti il brano paesaggistico del Battesimo Gallarati Scotti, attestato anticamente (Lomazzo) come opera di collaborazione tra i due pittori.