Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino
(Cento 1591 - 1666 Bologna)
Madonna con il Bambino, 1647
Olio su tela, 116 x 95 cm (45.67 x 37.40 inches)
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino
(Cento 1591 - 1666 Bologna)
Madonna con il Bambino, 1647
Olio su tela, 116 x 95 cm (45.67 x 37.40 inches)
Rif: 696
Provenienza: Reggio Emilia, Aurelio Zanelletto
C. C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, Bologna 1678, ed. Bologna 1841, II, p. 267
Il libro dei conti del Guercino: 1629-1666, ed. a cura di B. Ghelfi, Bologna 1997, p. 136, n. 378
N. Turner, The paintings of Guercino. A revised and expanded catalogue raisonné, Roma 2017, p. 532, n. 243.
Su un fondale scuro sulla destra, ma aperto dalla parte opposta su un paesaggio dall’indole fortemente umanizzata – si noti la presenza rassicurante di una fortezza e più in lontananza di un gruppo di case coloniche – si stagliano vivide le figure della Vergine e del Bambino addormentato. Il carattere intimo e silenzioso di questo incantevole dipinto di devozione privata, configura l’opera evidentemente come un soggetto destinato ad un ambiente raccolto, probabilmente una camera da letto, immagine utile dunque come riscontro visivo delle orazioni serali da parte di uno scrupoloso osservante.
La vicenda critica della tela è piuttosto recente: passata sul mercato a Milano nel 2008 con l’esatto riferimento a Guercino, riferimento sostenuto nell’occasione da Daniele Benati, nel catalogo della vendita l’opera veniva individuata – sia pure in linea di ipotesi – come quella eseguita dal pittore nel 1638 e consegnata lo stesso anno a Sebastiano Butricella, notabile della città di Cento[i]. Questa identificazione è stata ribadita ultimamente da Nicolas Turner: lo storico inglese sostiene che l’opera sia assimilabile allo stile del Guercino degli ultimi anni trascorsi nella sua città natale[ii]; inoltre, secondo Turner, il prezzo pagato da Butricella per la tela – pagamento avvenuto in due tranches nell’ottobre del 1638 e registrato nel Libro dei conti[iii] - nel consueto tariffario di Guercino era adeguato ad una composizione di una mezza figura più un putto e quindi certamente rispondente al dipinto qui esposto.
Tuttavia osservando la qualità cromatica dei tessuti, a partire dal lenzuolo rosa scuro collocato sul piano, passando alle ombre delle pieghe del cuscino bianco e al rosso e al blu accesi e definiti della veste e del manto della Vergine, il pensiero corre alle opere del Guercino successive di un decennio, quelle eseguite dunque a Bologna negli anni 1647-48, fase nondimeno particolarmente feconda della carriera del maestro. Il gruppo della Vergine col Bambino si può assimilare certo a quello dipinto nella parte superiore della Visione di San Bruno, grande tela consegnata nell’ottobre del 1647 ai padri certosini di Bologna per decorare l’altar maggiore della loro chiesa (oggi l’opera è conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna)[iv]. Attinente è anche il gruppo in alto a sinistra della pala con l’Estasi di San Filippo Neri della chiesa di Santa Maria di Galliera, opera consegnata dal Guercino nel novembre dello stesso anno[v]. I bianchi del cuscino e del lenzuolo con cui la Madonna si appresta a coprire il corpo nudo del figlio, trattati con sottilissime variazioni luminose che ne evidenziano in modo tangibile gli aspetti di verità e franchezza, ricordano invece da vicino quelli del giaciglio di Cleopatra nella famosa tela recapitata a Genova a Carlo Emanuele Durazzo nel marzo 1648 e oggi conservata nelle Gallerie di Palazzo Rosso[vi]. Tenuto conto di queste analogie formali e nell’uso della tavolozza, il dipinto qui esposto è a mio avviso meglio riconoscibile in quello eseguito nel 1647 e venduto il 23 novembre a un “gentiluomo da Reggio”, come recita il Libro dei conti[vii]. Data la natura dell’opera non stupisce l’indicazione d’uso attestata dallo stesso Guercino nel suo registro: “la Madonina che staua dal mio letto”. Un’opera quindi dapprima destinata al sentimento di devozione religiosa del pittore stesso e poi venduta ad un acquirente reggiano. Il nome di quest’ultimo si desume dalle pagine di Malvasia: in appendice alla biografia del Guercino nella Felsina pittrice[viii], il canonico illustra l’attività del maestro con un regesto di opere elencate ad annum, sulla scorta di documenti manoscritti – primo tra i quali proprio il Libro dei conti – lasciati da Paolo Antonio Barbieri. All’anno 1647 troviamo fra le altre la segnalazione “Una B. V. col bambino che dorme al sig. Zanelletti di Reggio”. A risultare decisiva per il riconoscimento della tela qui esposta è proprio l’indicazione relativa al Bambino addormentato. Nel grande catalogo di opere su tela di Guercino (Nicolas Turner ne conta quasi 500) non vi è altro soggetto simile, né nelle fonti antiche, manoscritte o edite, ve ne è alcuna altra menzione. Si tratta dunque di un argomento determinante per ricostruire la provenienza del dipinto esposto: un soggetto di raccoglimento condotto con la consueta disinvoltura dell’arte di Guercino, ma senza l’ampia gestualità che contraddistingueva le opere di destinazione pubblica o eseguite per la sale di rappresentanza dei palazzi principeschi. Un dipinto dunque d’indole borghese – e d’estrazione borghese era appunto il signor Aurelio Zanelletti di Reggio Emilia – stupefacente per la qualità della finitura, ma al contempo silenzioso e distensivo, predisposto evidentemente per una casa privata anziché per una residenza fastosa. La recente ripulitura ha permesso il recupero del brano di paesaggio sul lato sinistro, nel quale si notano ora due figure di viandanti, protette dalla mole della fortezza, ad indicare in modo significativo lo svolgersi e il lento proseguire della vita quotidiana nel mondo rasserenato dalla nascita del Salvatore. Un parallelo quindi tra la palingenesi della natura stessa con l’avvento di Cristo e l’aspirazione alla serenità nell’esistenza di ogni uomo, chiave di lettura del motivo devozionale che è alla base della realizzazione di un’opera di questo genere.
Nicolas Turner sostiene che un precedente, a suo avviso un bozzetto, di quest’opera sia da riconoscere nel dipinto attestato fino al 1945 presso il Castello di Sanssouci a Potsdam e oggi perduto, noto solo attraverso una foto dell’inizio del XX secolo dell’archivio della Witt Library. L’irreperibilità della tela in questione, acquistata a Parigi nel 1763 ed entrata lo stesso anno a far parte delle ricche collezioni di Federico II di Prussia[ix], non permette di stabilire con certezza quale delle due fosse la prima redazione del soggetto, né se il dipinto già del re di Prussia dovesse essere considerato opera autografa o piuttosto copia di bottega. Tuttavia la presenza di un piccolo pentimento, all’altezza del mignolo della mano destra della Vergine, nella tela oggi esposta, dovrebbe essere un’indicazione piuttosto rilevante per certificare la precedenza di questa rispetto alla redazione perduta alla fine della seconda guerra mondiale. Come giustamente suggerito da Turner, in una composizione di questo genere Guercino attinge dal repertorio di Guido Reni, in particolare dall’incisione con la Vergine e il Bambino addormentato[x] – fonte d’ispirazione a sua volta per un’altra famosa tela ad opera di Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche). Reni si lamentava di quest’attitudine da parte del rivale centese (“pesca le mie idee e cerca il mio fare”[xi]), ben consapevole tuttavia che proprio il peso che egli aveva presso la committenza emiliana aveva costretto il Guercino a seguire suo malgrado i modelli formali da lui imposti. Qui però ci troviamo in una fase successiva, cinque anni dopo la morte di Guido: attingere dal repertorio del suo antico avversario, per il Guercino diventava una sorta di omaggio, nonchè l’affermazione implicita che lo stile e i modelli più alti restavano inevitabilmente quelli della grande stagione del primo Seicento bolognese. Nel 1642, l’anno della morte di Guido, il Guercino si era trasferito a Bologna proprio per ereditare il ruolo accentratore, nelle committenze di prestigio, che Reni aveva mantenuto intatto per oltre trent’anni. Vi era alla base di questa scelta di vita, come del resto nell’uso reiterato dei modelli reniani nelle opere di questo periodo, la consapevolezza da parte del pittore di Cento di essere l’ultimo testimone del fasto di un’epoca irripetibile. Nella stessa fase in cui gli allievi di Guido tentavano di intraprendere ciascuno un proprio percorso personale per emanciparsi dal peso di un magistero così importante, Guercino stabilizzava la sua maniera reiterando quanto aveva già sperimentato nel decennio precedente e rinnovando la tavolozza anche sulla base del gusto accademico francese. L’opera presentata è un’importante testimonianza di questo rinnovamento all’interno della tradizione: l’aspirazione ad un classicismo ponderato e nitido che sarebbe piaciuto ad Ingres e al purismo ottocentesco. E che ancora oggi cattura il nostro sguardo e trasporta i nostri sentimenti in un hortus conclusus di semplicità e perfezione formale.
[i] Christie’s, Old Master Pictures, Milano, Palazzo Clerici, 28 maggio 2008, n. 129.
[ii] N. Turner, The paintings of Guercino. A revised and expanded catalogue raisonné, Roma 2017, p. 532, n. 243.
[iii] Il libro dei conti del Guercino: 1629-1666, ed. a cura di B. Ghelfi, Bologna 1997, pp. 93-94, nn.181-182.
[iv] D Mahon, in Giovanni Francesco Barbieri. Il Guercino 1591-1666, a cura dello stesso, catalogo della mostra, Bologna 1991, pp. 204-206, n. 109.
[v] L. Salerno, I dipinti del Guercino, Roma 1988, p. 317, n. 243.
[vi] B. Ghelfi, in Guido Cagnacci: protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, a cura di D. Benati e A. Paolucci, catalogo della mostra (Forlì), Milano 2008, pp. 204-205, n. 38.
[vii] Il libro dei conti cit., 1997, p. 136, n. 378.
[viii] C. C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, Bologna 1678, ed. Bologna 1841, II, p. 267.
[ix] M. Österreich, Description des tableaux de la Galerie royale et du Cabinet de Sans-Souci, Potsdam 1771, p. 44, n. 49.
[x] A. von Bartsch, Le peintre graveur, XVIII, Peintres ou dessinateurs italiens: maîtres du seizième siècle. Troiesième partie, ed. Lipsia 1870, n. 279.3.
[xi] Malvasia cit., 1841, II. p. 49.