Maestro Veneziano

(Attivo nel primo quarto del XVII Secolo)

Crocifissione con Santa Maria Maddalena, c. 1620

Olio su lavagna, 34,9 x 22,7 cm (13.74 x 8.94 inches)

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Maestro Veneziano

(Attivo nel primo quarto del XVII Secolo)

Crocifissione con Santa Maria Maddalena, c. 1620

Olio su lavagna, 34,9 x 22,7 cm (13.74 x 8.94 inches)

Rif: 712

Descrizione:

In un paesaggio spoglio, con la croce piantata sulla terra brulla sulla quale sono visibili solo i resti di uno scheletro umano, Cristo è descritto nel momento in cui esala l’ultimo respiro. Alla base della croce Maria Maddalena piangente volge a lui uno sguardo denso di partecipazione al dolore.

Il dipinto è realizzato a olio su un supporto di ardesia, secondo una tecnica ampiamente diffusa a partire dalla prima metà del Cinquecento. Era stato Sebastiano del Piombo, dopo alcuni incunaboli di artisti del Quattrocento, a imporre con la sua autorità formale la tecnica della pittura ad olio su materiale lapideo[i]. Nel dibattito sul “paragone delle arti” – ovvero su quale arte fosse da preferire da parte dei ‘conoscenti’ tra la scultura e la pittura – uno degli argomenti più usati a favore della scultura era appunto la deperibilità dei materiali di supporto dei dipinti, a fronte dell’eternità delle pietre. La necessità di dipingere su supporti lapidei deriva culturalmente da questo assunto e non è un caso se il pittore che più spesso sperimentò la tecnica dell’olio su marmo fu proprio Giorgio Vasari, ovvero l’intellettuale di maggior spessore nella trattatistica d’arte del Cinquecento e colui che per primo fu consapevole della centralità della storia – e quindi della conservazione delle opere in quanto documenti – nello sviluppo delle arti attraverso i secoli[ii].

Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo nelle città soggette alla Repubblica di Venezia si diffonde nelle botteghe degli artisti la pratica di usare come supporti per la pittura tavole d’ardesia o di pietra di paragone. L’esplorazione di miniere come quelle di ardesia in Val Brembana e di paragone nel territorio di Brescia aveva reso disponibili a buon mercato notevoli quantità di questi materiali, ma a risultare determinante era soprattutto la qualità cromatica delle pietre che ben si coniugava con le prerogative formali dei pittori di scuola veneta e lombarda. La maniera tarda di Tiziano e i vorticosi contrasti luministici dei soggetti di Tintoretto avevano condotto la pittura veneta a un poetica basata sul prevalere delle ambientazioni scure. Il largo uso di un’imprimitura bruna sulle tele ne rendeva la realizzazione – condotta attraverso pennellate di luce guizzante – molto rapida. La pittura su ardesia e paragone riduceva al minimo il problema della preparazione: ecco dunque, come attestano oggi gli studi di Linda Borean[iii], la presenza nelle collezioni veneziane del XVII secolo di un numero altissimo di lavagne dipinte, la maggior parte delle quali considerate negli inventari opera di autori senza nome. Non che grandi maestri non si misurassero a loro volta con questa pratica – si annoverano dipinti su lavagna da parte di Palma il Giovane, Agostino Carracci e addirittura Van Dyck – ma la fortuna di questo tipo di pittura era tale che spesso i modelli venivano replicati anche da artisti minori e diventavano, come nel caso della Crocifissione qui esposta, degli strumenti di devozione assolutamente consueti nelle case dei borghesi: non si trattava dunque – fatta eccezione per le composizioni più grandi nelle quali era necessario procedere alla saldatura di più tavole e quindi ad un lavoro di équipe – di opere realizzate su commissione, ma piuttosto di lavori indirizzati al mercato privato delle botteghe.

Nella Crocifissione con santa Maria Maddalena il punto di partenza si può rintracciare nelle tante redazioni del soggetto svolte da Jacopo Negretti detto Palma il Giovane (Venezia, 1550 circa - 1628) nel corso della sua lunga carriera: il pensiero corre in particolare alla tela di modeste dimensioni oggi alla Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro di Venezia[iv] – con la Maddalena che tuttavia è meno distante da Cristo di quanto non accada nel dipinto esposto – ma la silhouette del corpo del Redentore è replicata con poche varianti soprattutto in numerose pale d’altare, destinate in molti casi a parrocchie di provincia, e diviene dunque origine di una tradizione figurativa assai diffusa nei territori della Serenissima[v]. Lo stesso Palma è probabilmente l’autore della lavagna più famosa con questo soggetto: quella già conservata nelle collezioni di Giacomo Carrara e oggi presso l’Accademia Carrara di Bergamo[vi]. Tuttavia se confrontata al dipinto bergamasco la nostra lavagna sembra potersi collocare una generazione più avanti: l’eredità di Tiziano e Tintoretto viene qui interpretata da un maestro già cosciente delle soluzioni formali di natura plastica adottate da Padovanino (e alle imponenti figure femminili di Padovanino rimanda appunto la Maddalena). Vi è quindi una lettura retrospettiva della tradizione veneziana, con un uso delle ombre che tuttavia è decisamente secentesco e palesa anche il contatto con scuole regionali diverse, a partire da quella emiliana.



[i] H. Seifertová, Painting on Stone. An artistic experiment in the 16th and early 17th centuries, Praha 2007, pp. 16-21.

[ii] M. Casaburo, Pittura su pietra. Diffusione, studio dei materiali, tecniche artistiche, Firenze 2017, pp. 13-15, 88-91

[iii] Si veda ad esempio: L. Borean, La quadreria di Agostino e Giovan Donato Correggio nel collezionismo veneziano del Seicento, Udine 2000, pp. 183-189.

[iv] S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984, pp. 138, 202, n. 518, fig. 40.

[v] La più celebre, nel gruppo delle pale d’altare di Jacopo Palma con la Crocifissione e dolenti, è certamente quella oggi al Metropolitan Museum di New York, già a Venezia nella raccolta di Italico Brass: F. Zeri, E. Gardner, Italian Paintings. A Catalogue of the Collection of The Metropolitan Museum of Art, II, Venetian School, New York 1973, p. 46, fig. 52.

[vi] F. Rossi, Accademia Carrara. Catalogo dei dipinti sec. XVII-XVIII, Cinisello Balsamo 1989, p. 176, n. 271.