Paris Bordone

(Treviso 1500 - 1571 Venezia, 1550-1555)

Venere e Cupido

Olio su tela, 96,2 x 93,5 cm (37.87 x 36.81 inches)

  • Riferimento: 699
  • Provenienza: W. ImhoffIn un paesaggio rigoglioso, chiuso a sinistra dalla cortina di un roseto e in fondo dal profilo di un monte innevato, Venere è intenta a cogliere le rose e a porle nel cesto di vimini che reca in mano Cupido. Lo sguardo meditativo e malinconico, perso nel vuoto, pare alludere ad una puntura di spine e alla riflessione che qualsiasi amore e dolcezza comporta necessariamente anche dolore ed inquietudine. Il dipinto, una ‘poesia’ d’indole giorgionesca realizzata proprio nella fase in cui il mito di Giorgione a Venezia stava progressivamente prendendo quota, è stato riconosciuto dagli studi come opera di Paris Bordon. Si tratta in realtà del frammento superstite di un’opera di dimensioni maggiori che proseguiva sul lato destro – la risecatura è evidente sull’ala di Cupido cui manca la punta, nonché nella casa tagliata a metà sul fondo – con le figure di Diana e di Bacco, come attestano le menzioni antiche. La tela dunque originariamente era rettangolare, dilatata sull’asse orizzontale; la forma e le dimensioni (si presuppone che di larghezza misurasse circa due metri) rispondevano perfettamente a quelle che erano le caratteristiche proprie di un dipinto da camera nuziale, tipologia questa che a Venezia, dall’epoca della celebre tela Amor sacro e Amor profano realizzata da Tiziano per le nozze di Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto, si era nutrita spesso del languore di stampo intellettuale delle favole mitologiche – e la riflessione sull’importanza del mito a Venezia nella rappresentazione edificante dell’armonia sociale, attraverso il microcosmo della felicità, anche sessuale, della coppia e della stabilità familiare, è stata oggetto di frequenti studi da parte degli storici dell’arte orientati verso l’interpretazione delle immagini dal punto di vista dell’iconologia . L’opera qui esposta è attestata a partire dal 1570: in questa data il mercante d’arte Willibald Imhoff registra, nelle collezioni del suo palazzo a Norimberga, una “grande tavola nella sala con Bacco, Diana e Venere, dipinta in Venezia da Paris Bordone” . Imhoff era uno dei cittadini più ricchi della capitale della Franconia, procacciatore instancabile di dipinti soprattutto di maestri tedeschi e veneziani – allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen si conserva un suo ritratto ad opera di Tiziano. Nella sua raccolta oltre alla tela di Bordon e a diversi dipinti di Tiziano vi erano opere di Dürer (tra cui la splendida Deposizione di Cristo oggi alla Alte Pinakothek di Monaco), Cranach ed Holbein il Vecchio. Con la dispersione della collezione da parte degli eredi, la Venere di Bordon passò in Francia: la troviamo menzionata in ben tre vendite pubbliche a Parigi tra il 1764 e il 1768 (Le Brun, 19 giugno 1764; Largilliere, 14 gennaio 1765, n. 53; M. de Merval, 9-17 maggio 1768, n. 5), nell’ultima delle quali, presso il Cabinet Madame de Merval, è presentata nel catalogo in modo molto lusinghiero: “il serait difficile d’en trouver de ce Maître qui le surpasse en mérite” . Nel 1919 il dipinto, già nella forma attuale, passa sul mercato a Zurigo, quindi in collezione Sughardt a Vienna e poi, sempre nella capitale austriaca, nella famosa galleria Miethke-Wawra . Dopo la seconda guerra mondiale viene acquistato a New York dal magnate dell’industria automobilistica Walter P. Chrysler Jr., nella cui collezione resta fino alla scomparsa di questi nel 1988. Una vicenda collezionistica quindi di prim’ordine, che rende giustizia al valore di un’opera fra le maggiori del pittore ancora non acquisite da istituzioni museali (e la scelta nel 1974 da parte di Chrysler di esporre la tela presso il suo museo privato a Norfolk in Virginia è un’ulteriore conferma dell’ammirazione in cui questa era tenuta dal collezionista). Dopo che Niels von Holst nel 1951 pubblicò la notizia relativa alla provenienza della Venere di Bordon dalla collezione Imhoff, non essendo all’epoca disponibili negli archivi le immagini dell’opera, Giordana Mariani Canova ritenne, nella monografia da lei dedicata al pittore , che tela la già a Norimberga fosse da riconoscere in quella transitata nella prima metà del XX secolo nella collezione di Achillito Chiesa a Milano . L’immagine di cui disponiamo per quest’ultimo dipinto, tuttora non emerso sul mercato, presenta in realtà una redazione debole del soggetto, verosimilmente una derivazione antica di minori dimensioni, in cui le figure risultano più raccolte di quanto non dovesse avvenire nella tela originale del maestro. Solo con l’esposizione a Norfolk dell’opera qui presentata si ebbe contezza di aver recuperato finalmente il prototipo realizzato da Bordon : lo attesta l’altissima qualità lineare e cromatica dei panneggi, nei quali il modello tizianesco pare già unirsi alle impressioni luminose di Tintoretto; lo attesta l’eredità di Giorgione nella resa del paesaggio, che tuttavia palesa pure una stretta adesione alla pittura padana di metà secolo – si pensi a Dosso Dossi e a Correggio; lo testimonia infine la consistenza tattile del roseto sulla sinistra, che avrebbe potuto incontrare il gusto dei pittori della Confraternita dei Preraffaelliti nell’Inghilterra dell’Ottocento. Proprio sul roseto si ferma la nostra attenzione: le linee di movimento del braccio nudo di Venere, le cui ombre che scivolano sul candore ne accentuano l’erotismo, conducono verso la puntura del pollice e dell’indice, vero nocciolo della questione iconografica. Il sangue di Venere che, secondo il racconto di Ovidio genererà le rose rosse – e le rose significativamente nel dipinto sono ancora di color pallido – sarà quello della divinità ferita dai rovi e dalle siepi, mentre soccorre Adone morente. Il sangue del sacrificio di Adone a sua volta nutrirà la terra e, per volontà di Venere stessa, genererà l’anemone e il frutto del melograno – e su questa eucarestia pagana verrà impostata l’associazione tra la figura del giovane bellissimo semidio e quella di Cristo. La puntura di Venere, davanti ad un preoccupato Cupido, la conduce ad una riflessione sulla caducità della bellezza, dell’amore e della vita tutta. Lo sguardo malinconico, che ricorda quello della Vergine nel momento della premonizione della morte del figlio, è la chiave interpretativa di questa poesia vergata col pennello, in puro e testuale stile giorgionesco. Il tema dell’armonia della natura e della raccolta delle rose è interrotto da una puntura di spine che riporta – come ha ben indicato in un saggio giustamente celebre Augusto Gentili sul mito di Venere nella pittura veneziana del ‘500 – il tempo armonico e musicale al cinico tempo della storia. E la divinità pare perfettamente consapevole del passaggio dall’eterna primavera allo svolgersi e al succedersi delle stagioni. Si trattava del resto di un argomento sviluppato frequentemente dalla trattatistica sull’amore nel XVI secolo e tali letture facevano di certo parte del bagaglio culturale dell’aristocrazia veneziana e quindi della committenza per opere come questa . In un paesaggio crepuscolare e sereno, Bordon affida l’inquietudine delle metamorfosi ovidiane ad un solo magnetico sguardo. E nella sospensione emotiva cui siamo condotti, ci regala la dolcezza di una mirabile elegia.
Bibliografia:

N. von Holst, La pittura veneziana tra il Reno e la Neva, in “Arte veneta”, V, 1951, p. 131
D. De Sarno Prignano, Due segnalazioni per Paris Bordone, nella cui pittura “ogni tema è antico…ma…è trattato connovità, in Un identità: custodi dell’arte e della memoria: studi, interpretazioni, testimonianze in memoria di Aldo Rizzi, G.M.Pilo, L. de Rossi, I. Reale e M. del Friuli, 2007, 12, pp. 221-228
A. Donati, Paris Bordone, catalogo ragionato, 2014, pagg. 217, 329-330, n. 11

 

In un paesaggio rigoglioso, chiuso a sinistra dalla cortina di un roseto e in fondo dal profilo di un monte innevato, Venere è intenta a cogliere le rose e a porle nel cesto di vimini che reca in mano Cupido. Lo sguardo meditativo e malinconico, perso nel vuoto, pare alludere ad una puntura di spine e alla riflessione che qualsiasi amore e dolcezza comporta necessariamente anche dolore ed inquietudine.

Il dipinto, una ‘poesia’ d’indole giorgionesca realizzata proprio nella fase in cui il mito di Giorgione a Venezia stava progressivamente prendendo quota, è stato riconosciuto dagli studi come opera di Paris Bordon. In origine la tela proseguiva sul lato destro, come nondimeno attestano le menzioni antiche. L’opera dunque risultava essere rettangolare, concepita secondo una tipologia – quella del dipinto da stanza nuziale – che a Venezia, dall’epoca della celebre tela Amor sacro e Amor profano realizzata da Tiziano per le nozze di Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto, si era nutrita spesso del languore di stampo intellettuale delle favole mitologiche – e la riflessione sull’importanza del mito a Venezia nella rappresentazione edificante dell’armonia sociale, attraverso il microcosmo della felicità, anche sessuale, della coppia e della stabilità familiare, è stata oggetto di frequenti studi da parte degli storici dell’arte orientati verso l’interpretazione delle immagini dal punto di vista dell’iconologia[i].

L’opera qui esposta è attestata a partire dal 1570: in questa data il mercante d’arte Willibald Imhoff registra, nelle collezioni del suo palazzo a Norimberga, una “grande tavola nella sala con Bacco, Diana e Venere, dipinta in Venezia da Paris Bordone”[ii]. Imhoff era uno dei cittadini più ricchi della capitale della Franconia, procacciatore instancabile di dipinti soprattutto di maestri tedeschi e veneziani – allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen si conserva un suo ritratto ad opera di Tiziano. Nella sua raccolta oltre alla tela di Bordon e a diversi dipinti di Tiziano vi erano opere di Dürer (tra cui la splendida Deposizione di Cristo oggi alla Alte Pinakothek di Monaco), Cranach ed Holbein il Vecchio. Con la dispersione della collezione da parte degli eredi, la Venere di Bordon passò in Francia: la troviamo menzionata in ben tre vendite pubbliche a Parigi tra il 1764 e il 1768 (Le Brun, 19 giugno 1764; Largilliere, 14 gennaio 1765, n. 53; M. de Merval, 9-17 maggio 1768, n. 5), nell’ultima delle quali, presso il Cabinet Madame de Merval, è presentata nel catalogo in modo molto lusinghiero: “il serait difficile d’en trouver de ce Maître qui le surpasse en mérite”[iii]. Nel 1919 il dipinto passa sul mercato a Zurigo, quindi in collezione Sughardt a Vienna e poi, sempre nella capitale austriaca, nella famosa galleria Miethke-Wawra[iv]. Dopo la seconda guerra mondiale viene acquistato a New York dal magnate dell’industria automobilistica Walter P. Chrysler Jr., nella cui collezione resta fino alla scomparsa di questi nel 1988. Una vicenda collezionistica quindi di prim’ordine, che rende giustizia al valore di un’opera fra le maggiori del pittore ancora non acquisite da istituzioni museali (e la scelta nel 1974 da parte di Chrysler di esporre la tela presso il suo museo privato a Norfolk in Virginia è un’ulteriore conferma dell’ammirazione in cui questa era tenuta dal collezionista).

Dopo che Niels von Holst nel 1951 pubblicò la notizia relativa alla provenienza della Venere di Bordon dalla collezione Imhoff, non essendo all’epoca disponibili negli archivi le immagini dell’opera, Giordana Mariani Canova ritenne, nella monografia da lei dedicata al pittore[v], che tela la già a Norimberga fosse da riconoscere in quella transitata nella prima metà del XX secolo nella collezione di Achillito Chiesa a Milano[vi]. L’immagine di cui disponiamo per quest’ultimo dipinto, tuttora non emerso sul mercato, presenta in realtà una redazione debole del soggetto, verosimilmente una derivazione antica di minori dimensioni, in cui le figure risultano più raccolte di quanto non avveniva nella tela originale del maestro. Solo con l’esposizione a Norfolk dell’opera qui presentata si ebbe contezza di aver recuperato finalmente il prototipo realizzato da Bordon[vii]: lo attesta l’altissima qualità lineare e cromatica dei panneggi, nei quali il modello tizianesco pare già unirsi alle impressioni luminose di Tintoretto; lo attesta l’eredità di Giorgione nella resa del paesaggio, che tuttavia palesa pure una stretta adesione alla pittura padana di metà secolo – si pensi a Dosso Dossi e a Correggio; lo testimonia infine la consistenza tattile del roseto sulla sinistra, che avrebbe potuto incontrare il gusto dei pittori della Confraternita dei Preraffaelliti nell’Inghilterra dell’Ottocento. Proprio sul roseto si ferma la nostra attenzione: le linee di movimento del braccio nudo di Venere, le cui ombre che scivolano sul candore ne accentuano l’erotismo, conducono verso la puntura del pollice e dell’indice, vero nocciolo della questione iconografica. Il sangue di Venere che, secondo il racconto di Ovidio genererà le rose rosse – e le rose significativamente nel dipinto sono ancora di color pallido – sarà quello della divinità ferita dai rovi e dalle siepi, mentre soccorre Adone morente. Il sangue del sacrificio di Adone a sua volta nutrirà la terra e, per volontà di Venere stessa, genererà l’anemone e il frutto del melograno – e su questa eucarestia pagana verrà impostata l’associazione tra la figura del giovane bellissimo semidio e quella di Cristo.

La puntura di Venere, davanti ad un preoccupato Cupido, la conduce ad una riflessione sulla caducità della bellezza, dell’amore e della vita tutta. Lo sguardo malinconico, che ricorda quello della Vergine nel momento della premonizione della morte del figlio, è la chiave interpretativa di questa poesia vergata col pennello, in puro e testuale stile giorgionesco. Il tema dell’armonia della natura e della raccolta delle rose è interrotto da una puntura di spine che riporta – come ha ben indicato in un saggio giustamente celebre Augusto Gentili sul mito di Venere nella pittura veneziana del ‘500[viii] – il tempo armonico e musicale al cinico tempo della storia. E la divinità pare perfettamente consapevole del passaggio dall’eterna primavera allo svolgersi e al succedersi delle stagioni. Si trattava del resto di un argomento sviluppato frequentemente dalla trattatistica sull’amore nel XVI secolo e tali letture facevano di certo parte del bagaglio culturale dell’aristocrazia veneziana e quindi della committenza per opere come questa[ix]. In un paesaggio crepuscolare e sereno, Bordon affida l’inquietudine delle metamorfosi ovidiane ad un solo magnetico sguardo. E nella sospensione emotiva cui siamo condotti, ci regala la dolcezza di una mirabile elegia.

 



[i] Si possono citare a riguardo gli studi su Tiziano di Charles Hope e Augusto Gentili: C. Hope, Problems of interpretation in Titian’s erotic paintings, in Tiziano e Venezia, convegno internazionale di studi (Venezia 1976), Vicenza 1980, pp. 111-124; A. Gentili, Amore e amorose persone: tra miti ovidiani, allegorie musicali, celebrazioni matrimoniali, in Tiziano. Amor Sacro e Amor Profano, catalogo della mostra (Roma), Milano 1995, pp. 82-105.

[ii] N. von Holst, La pittura veneziana tra il Reno e la Neva, in “Arte veneta”, V, 1951, p. 131.

[iii] P. Remy, Le Cabinet de M. de Merval, Parigi 1768, p. 3, n. 5. Il dipinto nell’occasione della vendita è presentato come un’Allegoria delle Stagioni.

[iv] Per i passaggi sul mercato si veda: A. Donati, Paris Bordone. Catalogo ragionato, Soncino 2014, p. 330, n. 118.

[v] G. Mariani Canova, Paris Bordon, Venezia 1964, pp. 119-120, fig. 148. La foto pubblicata dalla studiosa era quella conservata presso il fondo Berenson a Villa I Tatti (Settignano, Firenze).

[vi] La collezione di Achillito Chiesa era stata venduta a New York tra 1925 e il 1927 presso l’American Art Association. Del dipinto già assegnato a Bordon, di proprietà del collezionista di origine argentina, deriva una copia, pubblicata da Sylvie Béguin con attribuzione alla bottega del maestro veneziano: S. Béguin, Paris Bordon en France, in Paris Bordon e il suo tempo, atti del convegno internazionale di studi (1985), Treviso 1987, pp. 9-28 (p. 24, fig. 26).

[vii] La pubblicazione, da parte di Daniele De Sarno Prignano, del dipinto qui esposto è avvenuta quando l’opera, dopo l’ultimo passaggio d’asta, era entrata a far parte della collezione di Luciano e Agnese Sorlini: D. De Sarno Prignano, Due segnalazioni per Paris Bordon, nella cui pittura “ogni tema è antico [...] ma [...] è trattato con novità”, in Un’identità: custodi dell’arte e della memoria. Studi, interpretazioni, testimonianze in ricordo di Aldo Rizzi, Mariano del Friuli 2007, pp. 221-228.

[viii] A. Gentili, Da Tiziano a Tiziano. Mito e allegoria nella cultura veneziana del Cinquecento, Roma 1988, pp. 167-182.

[ix] Si può citare fra i trattati il Libro de Natura de Amore di Mario Equicola (1470 circa – 1525), uno dei testi più pubblicati e diffusi a Venezia nel XVI secolo.

 

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