Francesco Zanin

(Nove 1824 - 1884 Venezia)

Il Canal Grande - La Riva degli Schiavoni, 1872

Olio su tela, 44 x 64 cm (17.32 x 25.20 inches)

  • Riferimento: 780
  • Provenienza: Collezione privata
Bibliografia:

F. Magani, Francesco Zanin. Un Canaletto nell’Ottocento, Milano, 2008, nn. 16-17, pag. 26-27

Condition Report disponibile a richiesta

E’ uno spazio, quello che vediamo impresso nella coppia di dipinti, messo in regola solo indirettamente su analoghe versioni del Canaletto, tirate a bulino e pubblicate nell’opera Urbis Venetiarum prospectus celebriores (Venezia, 1742) di Antonio Visentini, dove non c’è traccia di alcune modifiche edilizie nel frattempo avvenute nel tratto compreso tra le chiese degli Scalzi e di Santa Lucia, che si vedono sulla destra nel primo esemplare.

Invece sono puntualmente registrate nella versione a stampa di Michele Marieschi intitolata il Canal Grande agli Scalzi, tratta dalla raccoltaMagnificentiores, Selectioresque Urbis Venetiarum Prospectus (1741), dove l’artista si firma “Venetus Pictor, et Architectus”. 

E’ nota la ricostruzione di Federico Montecuccoli degli Erri (F. Motecuccoli degli Erri – F. Pedrocco, Michele Marieschi. La vita, l’ambiente, l’opera, Milano 1999) che ha mostrato il percorso di tale tiratura settecentesca, che fu lunga nella sua diffusione fino all’edizione di Giuseppe Wagner degli anni Ottanta. Intanto, fino alla morte dell’artista nel gennaio del 1743, dunque per  circa un anno dal privilegio di stampa, poi fino al 1751 con i diritti della moglie Angela Fontana, e così fino al 1757 con quelli del pittore Francesco Albotto, l’immagine poteva entrare anche nella disponibilità di Francesco Guardi.

Il senso teatrale dello scorcio aveva avuto delle prove su tela realizzate dallo stesso Marieschi intorno al 1740 – tanto si desume dalla rete di ipotesi più attendibili (riassunte in Motecuccoli degli Erri – Pedrocco, Michele Marieschi …, cit., pp. 386 – 387) – , che potremmo identificare nell’esemplare di collezione privata a Milano e in quello del Museum of Art di Philadelphia, dove si è ritenuto di intravvedere la mano di Giannantonio Guardi quale autore delle figure. 

Lo sguardo è introdotto verso la Chiesa degli Scalzi a destra, vicina alla chiesa di Santa Lucia, mentre a sinistra si scorge il volume di San Simeon piccolo, dell’architetto Giovanni Antonio Scalfarotto, una chiesa costruita negli anni Venti e consacrata nel 1738. 

L’altra opera mostra la prospettiva che inizia a sinistra con la severa mole di Palazzo Ducale, poi le Prigioni e si chiude con la prosecuzione a San Biagio. Tradizionale luogo di mercati della gente dalmata venuta dalla provincia della Repubblica (Schiavoni), in epoca napoleonica, con l’apertura dei giardini pubblici, fu la più apprezzata passeggiata della città, aperta verso il panorama del bacino lagunare.

Il Ponte della Paglia, tra Palazzo Ducale e le Prigioni, fu trasformato nel 1843-’44, sulla riva furono collocati lampioni a gas, e si sa che più oltre esistevano degli orti recintati che vennero distrutti nel 1838 da una bufera.

Nulla di tutto questo interessa a Francesco Zanin, che lascia la propria firma (Zanin Fran:co), dato che la sua Venezia è quella del passato, come se il tempo gliela avesse rubata. Ce la mostra maestosamente immutabile, con la vita e la disciplina pittorica di sempre, modellata sui grandi vedutisti del Settecento. Qualcuno, come Pompeo Gherardo Molmenti, con studi e scritti, non finiva mai di asciugarsi le lacrime piangendo la gloria perduta – e questa era diventata anche l’immagine lirica di Venezia, guardata come femmina dall’aria funebre durante la dominazione austriaca – , ma più caro ci appare oggi il vissuto di un pittore come Zanin, che col pennello trasforma una morta nell’aerea leggerezza di un giorno indimenticabile trascorso nella città dei sogni. E della memoria, se pensiamo come, di là delle parvenze del doratissimo mondo veneziano, il pittore si curi di definire sistematicamente le sue immagini con numeri progressivi (come nel nostro caso), in modo tale da costituire un vero e proprio repertorio d’autore. Qui in particolare, senza alcun mistero, ci lascia un’immagine della zona degli Scalzi dove il ricordo della chiesa di Santa Lucia viene dalla sua demolizione nel 1863, per far posto alla stazione ferroviaria, certamente simbolo della modernità e del collegamento dell’isola alla terra che, se da un lato avrebbe rovesciato il rapporto classico con la città, dall’altro permetteva d’iniziare quell’industria turistica di cui ancora oggi restano tracce evidenti, rinnovando il mito di Venezia vista sotto altra specie.

Sono certo che Francesco Zanin sia stato al fianco dell’amata città dove aveva scelto di vivere venendo dal territorio bassanese, addirittura austero nell’omaggiarla nella dimensione storica della rappresentazione, ma giovandosi della nuova apertura al mondo che andava delineandosi con l’ingresso nel Regno d’Italia. Credo che anche questa coppia di quadri, straordinaria per qualità, possa dirsi una testimonianza di fine anni sessanta.         

Nel momento del trionfo del bozzettismo lagunare, un genere laterale come la veduta sembra  perseguire, con una sua probità di mestiere, in una autonoma via al realismo, da Francesco Zanin, quasi a qualificarsi come il nuovo Canaletto ottocentesco. L'effetto, tutt'oggi, è di sicura piacevolezza. 

Ho già avuto modo di dimostrare come non sia difficile associare alla cornice scenografica delle architetture veneziane studiate da Francesco Zanin le incisioni del Canaletto. E’ probabile però che, oltre all’insistente impiego di stampe dai soggetti del massimo vedutista veneziano, una nuova attenzione derivi dalla vendita a Venezia di quadri ritenuti all’epoca del Canaletto, ma ora identificabili come opera di Michele Marieschi nella versione della Staasgalerie di Stoccarda. Facevano parte della collezione dell’artista Michelangelo Barbini venuto a mancare nel 1843, che tra 1850 e 1852 vennero acquistati dal re tedesco Gueglielmo I di Württemberg. Probabilmente nell’imminenza della vendita fu commentata e pubblicata da Francesco Zanotto nel 1847 (Pinacoteca Barbini Breganze dichiarata con note illustrative da Francesco Zanotto, Venezia 1847) e, in seconda edizione, nel 1850. 

Può darsi che la fama del gruppo di vedute allora ritenute del Canaletto, tristemente pronte ad essere cedute, abbia guidato il giovane Zanin a trattenerne la memoria in quel principio degli anni cinquanta e, in tal caso, sarebbe una delle prime esercitazioni dell’artista, rinnovata più volte in seguito.

E’ per certi versi commovente il rapporto di Francesco Zanin col suo spirito guida, tanto da poterlo considerare il più sentimentale e inguaribile custode della memoria canalettiana (magari un po’ patetico nel darsi alle repliche che talvolta hanno l’aria dei falsi nel clima del recupero dei maestri e dell’arredo settecentesco), come quando ha voluto curare il tema della Festa veneziana del Settecento con il Ritorno del Bucintoro al molo nel giorno dell’Ascensione  (F. Magani, La Venezia dei Grubacs, Treviso 2017, fig.19), vitale di colori modulati e oramai noto in varie redazioni. 

Il pittore, in più, nel 1863, a un secolo esatto dall’aggregazione accademica del grande vedutista, compone la copia del Portico in prospettiva (Venezia, Gallerie dell’Accademia) che era stato il suo dono d’ingresso.

Questo era uno tra i pochi quadri del Canaletto che a Venezia potevano dirsi disponibili allo sguardo, che il conservatore Pietro Edwards aveva preso in consegna in Accademia il 28 aprile 1807, dove nel 1856, con l’acquisto disposto dall’imperatore Francesco Giuseppe della celebre collezione Manfrin, entrò anche il Rio dei mendicanti e la scuola di San Marco, quadro ritenuto all’epoca proprio del Canaletto e però poi passato anche all’autografia del nipote Bellotto. Fra parentesi, il nostro Francesco Zanin, tanto per non perdere l’esercizio, realizzò circa una quarantina di repliche da questo dipinto (L. Moretti, Francesco Zanin (1824-1884) vedutista veneziano, in “Arte Veneta”, 68, 2011, pp. 287-290).

Un salto indietro nel tempo, come se fossero ancora vivi il confronto e l’immagine tradizionale di quell’artista e del suo secolo.

Ogni figura dei nostri quadri rappresenta una tipologia, proprio come avrebbe insegnato il Canaletto; personaggi imprescindibili al sapore della mise-en-scène. Magari meno esplicitamente che altrove – ad esempio nei Festeggiamenti per il nuovo acquedotto in Piazza San Marco(collezione privata), che registra con precisione di cronaca l’evento del 1877 – Francesco Zanin non rinuncia insomma a mantenersi moderno, aggiornando con accenti sottilmente percettibili la tradizione: si veda ancora la correttezza del segno, lontana da ogni tentazione compendiaria, l’indugio sui dettagli, l’addossamento del punto di vista che rende laterale e curioso lo stesso evento protagonista (ritorno a quanto mi è sembrato criticamente valido in F. Magani, Francesco Zanin. Un “Canaletto” dell’Ottocento, Milano 2008).

M’impressiona ancora la semplicità con cui il maestro sa rinnovare, nel tocco fluido e insieme esatto della scenografia lagunare, nella luce limpida, nella fluida ariosità del cielo, le qualità che avevano fatto grande il vedutismo veneziano nel secolo passato. 

Francesco Zanin, Giovanni Grubacs dimostrano come anche la rivisitazione dei modelli settecenteschi si proponga nell'Ottocento lagunare con la dignità della ricerca di effetti nuovi, di specifici umori. Era d'altronde, quello della veduta, o meglio ancora della prospettiva, un genere suffragato da una specifica classe d'insegnamento accademico. 

Non senza concessioni alla tradizione, ma con la curiosità scientificatipica del loro tempo, il pennello di Zanin e di Grubacs si sofferma a rilevare la cadenza e le differenti qualità di luce, insomma dell'illuminazione scenografica di Venezia. 

La vivacità descrittiva dei due quadri incarna l'eredità della tradizione, reinterpretata in un sentimento di fuggevole essenza della realtà; appare in effetti in sintonia con la volontà di ricordare le ore liete della Venezia del passato: un omaggio di strada a una sensibilità tardo romantica ancora viva nel secondo Ottocento.

 

 

                                                                                                          Fabrizio Magani 

 

 

 

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